Tre album in un solo anno, se non è un record comunque si avvicina. Achille Lauro ha cambiato ancora una volta direzione, estetica, sound e concept: se è vero che la personalità umana è poliedrica e molto sfaccettata, la sua ne è la prova provata. Lo avevamo lasciato alle prese con la risurrezione dell’alter ego Achille Idol ed eccolo che torna, in completo nero elegante gessato in bianco, borsalino sulle ventitré e tanta voglia di portarci indietro nel tempo.
1920: Achille Lauro & The Untouchable Band
“1920 – Achille Lauro & The Untouchable Band” è un altro viaggio, questa volta diretto al 1920. Se la scorsa estate siamo stati spinti nel mondo del vaporwave, dei sintetizzatori e delle estati tamarre e spensierate, alle porte dell’inverno ci scopriamo circondati dalle atmosfere che preludono al Proibizionismo e ai gangster di Al Capone, sempre ricordando dove sono piantati in realtà i nostri piedi. I puristi sono già fuori di sé: non si rendono conto che il jazz è musica di minoranze, che il suo scopo è quello di dar voce agli esclusi e che è costellato di santi protettori che hanno avuto vite in bilico tra gli estremi più opposti. Perché mai, dunque, Achille Lauro non dovrebbe potersi riconoscere nel jazz, anche solo momentaneamente? Insomma, chi ha paura di Achille Lauro? A quanto pare tutti, tranne coloro che vedono nella sua voglia sperimentare l’istinto di un musicista sinceramente interessato ad ogni singolo aspetto dell’arte che gli permette di essere amato e odiato. Un ragazzo che viene dalla trap e dal rap e decide di aprire un album con una magistrale versione di “My funny Valentine” è un musicista, oltre che uno con un bagaglio culturale non da poco. Un ragazzo che cita (nell’incipit di “Chicago”) la linea di contrabbasso di “Sing sing sing (with a swing)” di Benny Goodman nella riproposizione di Louis Prima non è lo stolto che molti credono sia. Che dire poi del cameo di “Tutti quanti voglion fare jazz” – che qui diventa rap – tratto dagli Aristogatti all’interno di un brano che fonde queste due facce della black music novecentesca, “Bvlgari Black Swing” (ft. Gemitaiz)? Un piccolo capolavoro fusion.
I duetti presenti nell’album di Achille Lauro
I duetti portanti, comunque, sono due ed entrambi per certi versi inaspettati. Il primo è quello con Gigi D’Alessio sulle note di “Tu vuo’ fa l’americano”, classico di Renato Carosone che Lauro fa proprio in un napoletano nemmeno troppo “alla romana”. Bello, fedele all’originale ma perfettamente calato in questi doppi anni ’20 del secolo scorso e del nostro. Il secondo è “Jingle bell rock”, in cui prevale la voce di Annalisa ormai sua musa e partner in crime. Sono i Bonnie e Clyde del Natale di cui non sapevamo di avere bisogno. Tra autocitazioni (“Cadillac 1920”), ballad blues (“Piccola Sophie”) e follie swing (“Pessima”), Achille Lauro ha deciso che la sua nuova identità è questa, che piaccia o meno. Se poi anche un solo adolescente decide di avvicinarsi al mondo del jazz, incuriosito dal progetto dell’artista romano, la vittoria non può che considerarsi sua.
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