Hai sentito che musica

Pornocrazia, la società in un beat Il manifesto sociale di Vincenzo Incenzo

Pornocrazia_Vincenzo Incenzo

Autore: Clara Habte

 

Ascolto o ballo? Ballo ascoltando. Pornocrazia è il pezzo necessario, testo e sound moderni dai confini senza perimetro. Vincenzo Incenzo conferma la sete di cultura, arte e indignazione. Portavoce, ancora una volta, di persone orfane di riferimenti politici. Sentinella e voce di una stagione con pochi, pochissimi megafoni.

 

La curiosità, lo studio e l’esplicazione dell’intimità -quella dell’anima a cui diamo sempre meno spazio- portano il superamento del ‘sentire’ per arrivare all’ascolto. I piedi si muovono, le orecchie vigilano, la coscienza emerge in una danza elettrica. La scarica cerebrale riempie il cuore, scioglie lo stomaco, le farfalle prendono il volo nel manifesto-album che lenisce la distanza corporale in un incontro tra anima e testa.

A proposito di Pornocarazia Vincenzo Incenzo ci anticipa che:

«Questa non è una canzone, ma il rifiuto di venerare e servire questo falso Regno dei Cieli che è la nostra contemporaneità. Non c’è niente di più pornografico di un inferno travestito da paradiso, di un dispotismo mascherato da democrazia. Il linguaggio non è più il luogo della verità, l’utile ha preso i vestiti del vero. Il patto sociale è andato a farsi benedire e ognuno crede di potercela fare da solo armato del suo smartphone. Questo tempo è un attore mancato, mai andato in scena. I prodotti ci comprano, le immagini ci spiano, i giovani nascono vecchi e non si ribellano più a niente. Una canzone non può fermare questa marea inarrestabile, ma per almeno 3 minuti può surfare sulle onde e comunicare il sogno di resistere».

 

Una conversazione quella che segue informale, politica, intimista. L’urgenza di trovarsi, confrontarsi, dialogare attraverso un ritmo elettrochoc in uno spazio che supera geografie generazionali e culturali.

Dal primo ascolto non si può fare a meno di riascoltare Pornocrazia e, Le dirò di più, forse è il caso di scrivere anche per qualche giovane rapper?

Sorride. «Diciamo che a differenza dell’atteggiamento che dovrebbe avere uno della mia età, io sono molto attento invece, sono molto curioso e molto partecipe alle sfide della contemporaneità. Mi piace sentire le cose nuove e, adesso non è che io voglia con questo pezzo iscrivermi all’albo dei rapper però ho preso in prestito questa cosa perché mi permette, questo tipo di linguaggio, il rap è extrabeat, è velocissimo, proprio perché riesci e puoi dire tante cose in poco tempo: sarebbero servite quattro canzoni per far passare il messaggio. Infatti, abbiamo problemi nell’impaginazione per i testi nell’album, per i testi che sono lunghissimi stavolta e, dobbiamo inventarci qualcosa: ci sono tante parole in questo disco. Quindi, ti dico, a me piacerebbe tanto collaborare con giovani rapper, non ho preclusioni di sorta,  non se c’è una cosa bella anche nel mestiere anche di autore come è stato e come è successo di aver scritto da Lorella Cuccarini alla PFM e quindi adesso questi nuovi linguaggi sarebbe assurdo ignorarli».

 

In questo primo singolo ho trovato Vincenzo Incenzo. Questo connubio tra l’elettronica e le parole mi fa pensare alla metrica di Eminem -che secondo me è il Dante del rap- fatto in italiano, fatto da un italiano moderno. Ora è indiscutibile che Lei sia una sentinella della società come autore ma questo sound come Le è arrivato?

«Penso che la fonte più importante siano stati, ormai devo fare uno sforzo di memoria che sono passati due anni, i viaggi. Il primo in America Latina, che adesso è veramente la mecca della nuova musica. Medellìn in Colombia è la nuova Miami musicalmente, dove ho sentito tante cose diverse ma a parte diciamo le fonti ufficiali nelle strade i ragazzini rappano, fanno delle cose incredibili. Poi, tornando in Germania, sentendo questa nuova onda elettronica che sta funzionando tanto, ho voluto studiare questi codici: è stato un lavoro. Quando ho scritto questa canzone all’inizio non riuscivo a cantarla, ho dovuto imparare un modo nuovo di scrivere e di cantare: però mi piaceva affrontare questa nuova sfida, quindi, mi sono buttato. Ci sono anche altri esempi nel disco di questo tipo di codice proprio perché l’elettronica mi affascina tantissimo e, penso che sia una chiave, cioè un volano molto forte per veicolare delle cose molte volte con il suono acustico diventerebbero quasi retoriche, invece l’elettronica ti veicola tutto: è ironica, è velenosa, è sarcastica però è neutra allo stesso tempo, non è partecipata, non è fredda. È un canale che mi piace molto esplorare».

Una svolta, insomma…

«Direi di sì. Se metto a confronto il primo album, quello prodotto da Renato Zero e questo, sono propio due mondi diversi ma questo è il bello. Dico sempre se ha un senso per me fare il cantautore dopo quasi trent’anni di autore: lo ha, cercando di fare quello che non ho fatto prima. Quindi sperimentare, giocare, cercare nuovi codici e mi piace che siano tre dischi molto diversi anche se, una volta un giornalista mi ha detto “ma non pensi che così il pubblico si spiazza?”, ecco sono contento se si spiazza. Il primo a spiazzarmi sono io e, quindi anche io, quasi lo vivo da fuori e dico “beh, almeno c’è un senso nel viaggio nuovo che ho intrapreso e, sono contento e penso che andrò avanti così di palo in frasca, esplorando».

Ce ne fossero spiazzare il pubblico… La curiosità, la grande attenzione ma che emozione, però? Perché c’è anche una denuncia importante  nella lettura di questa società.

«Sono in un momento, proprio della mia vita, in cui certe volte penso di lasciare tutto. Sento di non avere nulla da perdere a questa età e in questo momento della mia vita. Ho una grande libertà, anche perché tecnicamente, burocraticamente sono completamente libero: questo disco lo produco io, quindi non ho vincoli di sorta e non sono così tanto condizionato. Non faccio, come dire, tante pretattiche immagino che questo pezzo non possa passare a Unomattina, lo capisco, insomma, e va bene così».

Perché no!?

«Me lo auguro che ci sia questa chance però dico, non mi faccio calcoli di sorta. Ecco, lavoro in grande libertà, e questo mi permette di dire esattamente quello che ho in mente. In questo periodo sono molto avvelenato poi mi sono imbarcato in una serie di letture molto profonde e molto in contrasto col tempo in cui viviamo: sono andato a recuperare anche autori del passato come Chesterton e questo mi porta a dire “mannaggia, ma vedi però, lo dicono anche loro” e tutta questa letteratura distopica che annunciava quello che poi sarebbe successo. Insomma, questo mi porta un po’ ad essere forse più velenoso di sempre, non tanto in quello che scrivo ma proprio nel mio atteggiamento di vita poi dall’altra parte c’è comunque tutta la dimensione intima, romantica che c’è anche in questo disco. Anche se, il disco pesa più dalla parte sociale, polemica».

Pornocrazia_Vincenzo Incenzo

Che sapore ha la libertà?

«La libertà ha un sapore… come ti vorrei dire, ha il sapore della mia infanzia: di quell’incanto consapevole però, capito, rispetto a prima, mi pare anche in una canzone la dico questa cosa qua, dico proprio “povero tempo che ha tradito quei bambini che sudavano felici alla fine di una partita di calcio e quando il tramonto…”. Ricordo proprio questo tramonto a Villa Pamphilj che allungava tutte le nostre ombre: noi sembravamo dei bambini ma sembravamo anche dei giganti. Sembravamo infiniti. E, c’era tutto da fare, eravamo veramente liberi in quel momento e quindi quando penso alla libertà: penso a quello stato di grazia dell’infanzia. Quando uscivi di casa senza chiavi perché comunque ti aspettava tua mamma a casa, senza telefono (perché non c’erano ancora i telefonini), senza soldi. Eri così: in mezzo alla strada, libero e felice. E, veramente felice. Ricordo di aver gustato proprio la felicità, che è una sensazione che faccio fatica a vivere oggi. E, ti svegli sempre con una sorta di labirintite, cioè: che succederà oggi? Dove vado? Sì, faccio questo, faccio quell’altro, faccio mille cose ma sono sicuro che c’è anche qualcosa dall’esterno che ti alimenta o mi sto autoalimentando così all’infinito? Ritardando il big-bag».

Tornando alla grande attenzione alle politiche sociali, parliamo di politica e non di partitismo, qual è l’urgenza secondo Lei?

«L’urgenza, intanto, è che la persona torni al centro, prima di tutto. I governi non vogliono bene alle persone, non c’è questa attenzione. Ci considerano molto stupidi e, anche questa storia del greenpass è un esempio illuminante di come è stato gestito, al di là del valore che possa avere, indiscutibile, ma questa comunicazione volta sempre a nascondere altro. Questa è la prima cosa, secondo me, la Pornocrazia secondo me è proprio questo basso impero che stiamo vivendo dove la normalità è vista come la nuova eccellenza. Mi sembra la situazione del tossico, che praticamente è costretto ad assumere sempre più droga non già per stare bene ma per tornare alla situazione di partenza -capito- quindi  l’eccellenza è diventata cercare il male minore. Ecco, lo volevo scrivere in una canzone poi non l’ho scritto: “il meglio -forse lo ha scritto per me qualcuno di più importante- è comunque il nemico del bene”. Perché meglio così che. No, non va più bene questa cosa, ormai ci siamo abituati al male minore e questo è un problema grande, secondo me».

Questo è anche un esercizio e un’esigenza che abbiamo noi romani. Nel senso che nel ragionamento in cui mi ci ritrovo è che abbiamo questa difficoltà proprio perché siamo romani. Mi spiego, il meglio: anche quando siamo arrabbiati con le istituzioni, per qualche sopruso poi arriva Roma con tutta la sua bellezza e lenisce ogni arrabbiatura. Abbiamo un senso di bellezza estetica che è un sottostrato che non ha bisogno di emergere perché è latente. Ecco, allora, come si richiamano i romani?

«Non accettando la realtà che sia quella che ci arriva dalla comunicazione unica, tra l’altro in questo momento. Dal pensiero unico che arriva dalle fonti ufficiali. Guarda, anche sul discorso dei sindaci, anche sul discorso della Raggi -sulla sua demonizzazione, anche con tutti i limiti che poteva avere- e comunque è parte di un disegno che mi sembra sempre di rilanciare il problema all’infinito e non risolverlo mai. E, adesso, queste nuove promesse: Roma pulita in un mese, di fronte a tutto questo poi lo vediamo come gli analgesici siano: lo stadio nuovo, alla vigilia delle elezioni. La Roma pulita, cioè restituirci la cartolina che è più che altro una promessa difficile da mantenere. Credo che noi abbiamo, come dire, una memoria di Roma che non è più la Roma reale, però come dici tu, questa diapositiva che ormai è come un adesivo anche sulla realtà. Anche se vediamo bidoni pieni di spazzatura dietro vediamo il Pantheon e, questa cosa è un grande nemico perché su questo le politiche si approfittano. Quindi come risvegliare, dico che dobbiamo cominciare veramente a essere sindaci di noi stessi, dobbiamo cominciare veramente a capire il percorso, intanto, ad avere un po’ di memoria storica, a capire quello che è successo in tutti questi anni. È successo talmente poco che non possiamo andare avanti così: per promesse, per sentito dire e per proposte alla vigilia delle elezioni: dobbiamo veramente risvegliare il senso comune in questo senso e, avere una memoria storica. Essere noi, sicuramente al centro della città, cioè riprenderla in mano noi come individui. Alimentarla già dalla realtà di quartiere, di condominio: io abito in questo palazzo da tanti anni e conosco solo due persone. C’è anche un isolamento di ognuno all’interno del microcosmo figuriamoci poi nella città tutta. Secondo me deve ripartire veramente dai quartieri, forse è un po’ anacronistico però la difesa delle piccole realtà -quelle che poi rivendicava Pasolini quando metteva al centro la borgata ma lì c’era veramente l’humus e non è un caso che la creatività si scatena sempre in zone di quel tipo anche in altre latitudini anche nei barrios colombiani eccetera-, secondo me bisogna ripartire dal bassissimo: dalla piccola realtà condominiale e poi andare ad allargarsi».

Anche perché Roma è composta di 15 piccoli paesi…

«Certo, infatti».

Non entrando nel meccanismo burocratico altrimenti non ci bastano duecentomila battute…Torniamo a Lei, sa di essere eterno?

Ride. «Guarda, io, l’illusione… Io, sò perché faccio questo lavoro nel senso che sono molto, non dico spaventato, preoccupato… Non mi spaventa la morte, se dovessi morire domani mattina, questo non mi crea un’angoscia».

No, l’eternità.

«Ecco. Mi preoccupa di non aver creato lo spicchio di eternità prima. Questo fatto di scrivere tanto, di passare dal teatro alle canzoni, ai libri è il tentativo di allungare questo elastico: di allungarlo oltre la mia piccola vita. Mi piacerebbe che ci fosse una continuazione dopo. L’Arte ti da un po’ questa occasione, ti da questa possibilità di allungare l’elastico oltre l’infinito. La speranza, magari, fra vent’anni ma non dico vent’anni, cento anni -così nei sogni- che qualcuno si possa ricordare di te è una bella sensazione. Non so se alludevi a questo».

Direi di sì. E, rilancio con una provocazione: una mancanza che provo in questa città e anche in questo Paese è l’assenza degli artisti, intellettuali nella piazza. Tanti video, messaggi di adesione, tanto uso dei social ma non in piazza.

«Sono stra convinto che bisogna riappropriarsi delle piazze ed è un peccato che in questi due anni gli artisti si siano espressi molto poco, ho sentito presentazioni di album dove non si fa accenno minimamente a tutto quello che è successo e comunque allo stato delle cose. Lo trovo molto preoccupante: l’intellettuale è morto risucchiato dai divani dei talk show, ormai è sparito lì. Come dire ha preferito farsi coprire di denaro rinunciando però alla propria identità, non voglio fare nomi, ma c’erano delle figure autorevoli degli anni Settanta, Ottanta che adesso sono nei salottini del calcio, a parlare se era rigore o non era rigore, insomma, è molto avvilente. Insomma, credo all’idea di restituire questa ragione sociale alle canzoni poi all’Arte tutta, ma alle canzoni nello specifico perché si è persa. Infatti, Pornocrazia parte proprio così dicendo “Questa non è una canzone” ispirandosi a “Questa non è una pipa” di Magritte proprio perché se tutte le canzoni stanno andando tutte là, io non ci voglio andare. Io ho cominciato a fare questo lavoro a 17 anni -che non era ancora un lavoro- al Folk studio dove era imprescindibile il valore sociale della canzone. Tu, non potevi andare lì e cantare una canzone, non venivi proprio considerato. Era, probabilmente un eccesso di quel tempo che ho vissuto in maniera così febbrile però c’era anche una grande verità: la canzone è un testimone, può esserlo perlomeno e affrancarla completamente dalla realtà che stiamo vivendo mi sembra un delitto. Io, non ho un uditorio grande come quello dei grandi artisti, mi piacerebbe che lo facessero loro prima di me, insomma, però vedo che si stanno un poco allontanando da questo, la maggioranza. Anche i rapper in cui credevo molto, ne sono rimasti pochi che parlano del sociale: sono tutti persi dietro i cliché e Tik Tok».

In chiusura, Le confesso che sono più di un paio di stagioni che non seguo alcun talent ma quest’anno mi sono detta di doverli vedere per capire e scoprire le sfumature artistiche che propongono i giovani. In onda ora è il talent di Sky: e, sono colpita da più artisti dal 17enne che scrive di questa stagione magistralmente.

«Credo di aver capito il giovane che ha scritto un pezzo sui suicidi, lui è molto interessante».

Sì, e poi uno studente di ingegneria che interpreta senza tempo (un po’ si è accesa la nostalgia di Iannacci), uscito per la troppa timidezza. Ecco, allora ci sono questi ragazzi che hanno da dire e che lo fanno bene. Dove voglio arrivare, Lei, è una quelle persone che potrebbe essere una guida, che li affianchi nel loro spessore. Provare a parlare, ad ascoltare questa generazione?

«Sì sono d’accordo su questo. E, a supporto di questo, continuo a fare corsi per ragazzi di scrittura creativa. Adesso la prossima settimana torno a Milano poi, li farò a Roma. Intanto, è un arricchimento anche per me, perché sono codici freschi, infatti, mi fanno sorridere in certe scuole perché sono fermi veramente a vent’anni fa e, i ragazzi portano un brano rap e vedi i maestri a disagio che poi gli dicono a questi ragazzi “ma voi avete il canale  YouTube, potreste conoscere Pat Metheny” e dico sì, ma ce l’hai anche tu. Sentiti pure Eminem, sentiti gli astri del momento invece loro sono fermi, quindi, io, sono assolutamente predisposto. Per me i giovani hanno vinto sempre,  non solo quelli che criticano i giovani, sono sempre con loro. Cerco di apprendere, cerco di trasferire la mia esperienza: non parlerei di insegnare perché è una parola che mi fa un po’ paura. Forse di educare nel senso di aiutarli a tirare fuori delle cose. E, quindi, mi piacerebbe, come no, collaborare con loro. Credo che sia qualcosa che alimenti sia loro che me. Anche in questo disco ci sono brani che sono frutto anche di questo contaminarmi con le nuove sfide della musica e molte volte è proprio un ragazzo di 17 anni che ti apre la strada come è stato per me con i cantautori. Quando eravamo al Folk Studio, ricordo che mi facevano aprire le serate di De Gregori, era un segnale di grande disponibilità di questi nomi così importanti ma anche di scambio, di curiosità reciproca con tutte le distanze e le differenze del caso, per cui volentierissimo mi piacerebbe contattarlo. Poi, in passato ho fatto anche il produttore per certi esperimenti come Valentina Giovannini, quella ragazza che era molto nuova, forse anche oggi sarebbe ancora nuova».

Ancora fresca.

«Sì. Quindi anche io sono rimasto colpito da quel ragazzo. Faccio fatica a seguire tutto quel carrozzone, cioè le facce drammatiche mentre si decide se buttare all’inferno o salvare la vita. E, anche certi ragazzi che si debbano umiliare lì aspettando la sentenza e poi vedi che molti sono stati scartati come Madame etc».

Bisogna anche dire, se poi un giovane ha un’urgenza artistica e persevera emerge a prescindere dall’esito del programma. Trovo una lettura ottimistica del Covid, se pensiamo che negli ultimi due anni si è superato la sindrome tritacarne e meteora verso i giovani. È tornata l’attenzione delle case discografiche e di tutti i team verso i giovani artisti: magari dobbiamo rieducare gli adulti?

«Penso che l’esempio lampante sono state le scuole, è stata la Dad, dove gli alunni hanno educato gli insegnanti che erano veramente impreparati alla didattica a distanza. Credo sia assurdo considerare tutto questo fermento e questa velocità di assimilazione che hanno i giovani. Se ai miei tempi una generazione durava dieci anni adesso dura tre anni. Dieci anni sono tre generazioni per cui sono assolutamente da ascoltare. In questo senso i più adulti dovrebbero avere l’umiltà e rimettersi in discussione: fare un aggiornamento. Così come stanno facendo fare agli insegnanti i corsi di aggiornamento con il computer forse anche gli adulti dovrebbero uscire dalla loro gabbia dorata e mettersi in discussione. Coloro che si chiudono nella torre di avorio e sentenziano, sbagliano tantissimo perché il mondo cambia e, cambia velocemente e questo scambio tra nuove generazioni può essere utile: per loro proprio per prendere coscienza di una macchina che va a una velocità folle che magari possono cominciare a guidare con più personalità. E, per gli adulti, come dire non creare una frattura insanabile con tutto quello che c’è stato. Poi, intanto, in grandi artisti chessò Battiato o Lucio Dalla potrebbero duettare benissimo con Sfera Ebbasta non ci sarebbe nulla di strano».

Loro saprebbero anche chi è Sfera Ebbasta. Questa è la mancanza, la nostra mancanza.

«I giovani, lo abbiamo visto anche nel periodo della pandemia, sono forse tra i primi capri espiatori in questa società. Sono stati demonizzati come portatori del virus, c’è stato il periodo che li chiamavano fannulloni. Poi d’altra parte, vedo che alcuni ragazzi quando faccio lezione sono magari incapaci di muoversi nel territorio. Oppure ad esempio se chiedi quando è morto Pascoli, non lo sanno però poi hanno una manualità, una capacità di correlarsi con tutto quello che riguarda la tecnologia e con la capacità di leggere le informazioni in rete straordinaria, molto più della mia allora tu dici: l’energia è la stessa se non di più di quella che avevo io a vent’anni. È solo che è convogliata verso altre direzioni, quindi non è che se non sa di Pascoli non significa che sia un cretino. Gli insegnanti bocciano, ti racconto di un ragazzo che seguo che è un genio; adesso è diventato un Tiktoker straordinario eccetera, continuamente bocciato a scuola e ha 17 anni, ed è un fenomeno. Quindi voglio dire che i giovani hanno un grandissimo potenziale che va canalizzato e invece dato che non riguarda il canale precedente allora è considerato a parte. Secondo me, questo è solo un esempio per dire come manca una comunicazione autentica tra genitori e figli. Non ci vedo, veramente, un filo che li lega anche perché i genitori hanno fretta di diventare figli un’altra volta e, i figli fuggono e lo vedi da come cambiano e vanno a cercarsi continuamente un territorio tutto personale. Vanno su Instagram, arrivano i genitori e allora si spostano su Tik Tok, poi arrivano i genitori e così via. Sono sempre alla ricerca del loro giardino da coltivare, però queste generazioni nuove hanno molto da dire. Poi, c’è tutta una dimensione un poco compromessa da questi social che ti danno il guadagno facile, pensiamo a holly fans a tutte queste situazioni ma credo sia l’urto poi dopo ci sarà un livellamento di tutto questo perché non credo che possa andare così all’infinito. C’è una componente facilmente deteriorabile che pensa a farsi brandizzare, che vive per il protagonismo. Parlavo prima di una ragazzina che si fa fotografare di fronte alla bara padre aperta, c’è questo desiderio di apparire che supera qualunque dimensione etica, intima. Questo pericolo c’è ed è inutile che lo ignoriamo ma c’è anche una grande energia che va convogliata a tutto questo potenziale enorme, con conoscenze che noi non avevamo. Probabilmente se ne perdono tanti ma se ne acquistano tanti, ecco, se questa comunicazione avvenisse tra vecchio e nuovo sarebbe una formula micidiale».

Uno scambio generazionale che potrebbe far esplodere qualcosa di straordinario.

«Sì, ci dovrebbe essere una maggiore disponibilità tra i due poli».

Venti, venticinque anni l’ideale era di fare la velina e il calciatore come cambio di vita. Oggi, invece, come diceva sono i social a far da tramite ai soldi facili. Si dovrebbe tornare a porre la cultura non intesa solo come titolo accademico ma la capacità di leggere, ascoltare e imparare. La cultura come veicolo per ottenere soddisfazioni, anche economiche, e soprattutto veicolo di dignità.

«Assolutamente, per mantenere la dignità. Mi riporti a nominare, anche se non lo voglio citare troppo perché è diventato l’adesivo un po’ di tutti Pasolini, però ricordo quando lo intervistò Biagi gli disse: “Anche tu vendi merce perché fai film, scrivi libri”, Pasolini rispose: “Si, ma la mia merce non si consuma”. Ecco, non è che uno non debba proporsi ma si può allargare ad un discorso di qualità questa disponibilità dei giovani di mettersi in gioco. Non soltanto alle tette, al sesso facile».

E, l’amore dov’è.

«E, chi lo sa l’amore dov’è?. Sto facendo questo spettacolo che parla propio di questo con Giovanni Scifoni in cui la vera provocazione la diamo alla fedeltà. Abbiamo talmente fatto il giro che i ragazzini a 17 anni non hanno la barba ma già impotenti. E, quindi la trasgressione sta nel dire “Stasera vengo a casa e non ti faccio niente, non ti tocco”».

Questo mi fa pensare che nella mia adolescenza i divorziati erano pochi. Poi, i genitori insieme li dovevi cercare con la lente.

«È vero, erano alieni coloro che rimanevo legati, non erano moderni..».

Negli ultimi anni, invece, sono tornate le coppie durature. Il senso di famiglia, tanti figli. Quasi un equilibrio, oggi.

«Sono anche cicli, sono onde. Associare la famiglia a un’idea di antiquato è un concetto che lascia il tempo che trova. Credo, poi, che si possano vivere nella contemporaneità anche cose consolidatesi secoli fa. Oppure scegliere la propria indipendenza, vedo anche i discorsi sull’identità di genere, molte volte si autoghettizza. Dice sì, facciamo la legge: premesso che sarebbe stato probabilmente giusto anche se non era una legge perfetta quella proposta da Zan perché simbolicamente aveva un valore alto. Però, è anche vero che spesso sembrano delle autoghettizzazioni, se affermi: “se tu picchi un gay, picchi una categoria” allora mi chiedo, c’è una categoria? Diventa pericoloso questo discorso».

Su questo, Le confesso condivido il pensiero dell’autoghettizzazione: ascoltavo, in campagna elettorale, ad esempio, di una candidata legata ad un’Università di voler lanciare i bagni di ‘genere’. Ecco, sobbalzo, personalmente ho fatto l’associazione ai bagni per bianchi e quelli per negri: possibile che nel 2021 sia ancora così radicata la segregazione? Possibile che ci sia la necessità di trasformare una rivendicazione in azioni di ghettizzazione? Vede, tornando, ai giovani, non fanno alcuna discriminazione: non importa assolutamente con chi vai a letto, di chi ti innamori. Interessa il nome con cui ti presenti, non il genere. La sensibilizzazione degli ultimi trent’anni sul rispetto della sessualità ha portato questa generazione a cui interessa la persona. Certo, coi sono ancora dei trogloditi, sempre troppi, ma ancora una volta in questa nostra conversazione: ascoltare e imitare i giovani per leggere la realtà?

«Infatti. Qualunque nefandezza è concessa oggi però il politically correct sta creando dei disastri. Se tu ad una persona la chiami gay e non lo chiami no bynari: commetti un’infranzione».

È un’infrazione di sesso. Mentre per i ragazzi è normalità.

«Poi tutta questa attenzione alla sessualità la capisco poco. Noi veniamo da una generazione dove erano quasi tutti gay gli artisti, da Freddy Mercury, Michel Jackson e tanti altri e non abbiamo mai avuto questo fatto di dividere. Sembra che paradossalmente questa maggiore attenzione, questa maggiore sensibilità abbia portato ad una ghettizzazione. Io ho solo paura che questa difesa del mondo omosessuale ci sia l’intenzione di creare delle lobby economiche. E, allora, sono loro i primi a dover rendersene conto, ho tanti amici gay e devo dire che sono i prima ad essere contrari a questa lobby filosofica, ideologica, economiche che stanno per perimetrale attorno a loro. È  difficile, da una parte questo tentativo di sdoganare e dall’altra, invece, crea un fossato. Quindi possiamo dire come i ragazzi: “chissenefrega con chi vai a letto”».

Attraverso la musica, i libri, l’Arte e la Cultura tutta, Vincenzo Incenzo ci regala una lettura e una fotografia della società puntale e visionaria. Il viaggio inizia con Pornocrazia (Verba Manent / distribuzione Artist First), anticipa l’album di inediti “ZOO”, in uscita prossimamente ed è in radio da venerdì 5 novembre, sulle piattaforme streaming e in digital download, nell’attesa credo nessuno riuscirà a non ballare ascoltando. Pornocrazia è legato ad un tour di concerti che proseguirà con l’uscita dell’album non solo in Italia ma anche in America Latina, dove Incenzo ha già raccolto importanti consensi.

A noi non spetta altro che ascoltare, ballando fino all’incontro in presenza.

Pornocrazia è prodotto da Jurij Ricotti (Eminem, Rita Ora, Ariana Grande, Morricone, Bocelli) e DLewis (uno dei più affermati dj della scena internazionale), e fonde un testo velenoso e ironico con la Elettronica Extrabeat di stampo europeo. In questo progetto sono state usate tecniche innovative di registrazione e mix ancora non presenti sul mercato dell’audiorecording.

Il brano è accompagnato da un video realizzato con una sorprendente tecnica cartoon in tricromia dal video artist Luca Bizzi, che ha mescolato animazione 2D e 3D per creare atmosfere distopiche e crude.

LINK BRANO: https://lnk.to/Pornocrazia

LINK VIDEOCLIP: https://youtu.be/rMecmf78Foo

Clara Habte
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