Se al pittore, di fronte a una tela immacolata, serve definire una strategia di composizione, una tavolozza e l’origine e l’intensità della luce, lo stesso regista, quando sceglie i fotogrammi, stabilisce gli angoli, la dinamica degli interpreti, la trama dei loro costumi e, ancora, l’espressività che la luce gli conferirà.
Entrambe le discipline, pittura e cinema, possono essere legate fin dall’emergere del secondo nel 1895 e forse soprattutto nei primi decenni della sua evoluzione: ogni inquadratura potrebbe essere letta, allungando l’analisi, come un dipinto che aggiunge alle due dimensioni della tela quelle del tempo (e del movimento), della musica e della voce.
Partendo da questa intuizione, la Fondazione Canal presenta la mostra “Espressionismo. Un’arte del cinema”, che attraverso opere di molteplici tecniche legate all’espressionismo (dipinti, disegni, incisioni e sculture), fotogrammi e frammenti di film, ripercorre il profondo legame tra quell’avanguardia e il cinema, con la collaborazione della Fondazione Friedrich Wilhelm Murnau e dell’Istituto per lo scambio culturale di Tubinga.
Inevitabilmente il contesto di questa mostra è quello tedesco dei primi decenni del secolo scorso: né il cubismo, né il fauvismo o il futurismo trovarono terreno fertile in quel Paese, ma emerse un’espressione dalle forme dure, ancorata alla tradizione delle incisioni, che oltre a rifiutare la rappresentazione oggettiva della realtà scelse di approfondire la soggettività dell’individuo, in un periodo evidentemente turbolento. I gruppi Il ponte e Il cavaliere azzurro emersero nel decennio precedente l’inizio della prima guerra mondiale, una fase di industrializzazione accelerata e di tensioni politiche e sociali che si sarebbero riflesse in dipinti, opere grafiche (o film) che criticavano le convenzioni borghesi o indicavano l’alienazione urbana.
Le emozioni a cui partecipavano erano fondamentalmente quelle più istintive e soggette a distorsione tramite pennellate spesse e sinuose, toni forti, prospettive forzate e figure deformate, che oltre a costituire risorse estetiche assumevano rilievo come indizi di un’epoca.
Lo studio del dottor Caligari di Wiene, presentato per la prima volta nel 1920 nelle sale tedesche, non fu una rarità, ma il frutto di un decennio e mezzo di percorsi plastici e letterari, sensoriali e psicologici, che coinvolgevano gli spettatori in atmosfere evidentemente irreali… che però si legavano a un ambiente opprimente che essi conoscevano bene. Le sue ombre allungate divennero l’emblema di quelle sofferenze e, come sottolineava Siegfried Kracauer, di quelle che sarebbero venute.
Il percorso della mostra della Canal Foundation si concentra su come in quel periodo l’arte e il cinema affrontassero questioni comuni ( marginalità, disumanizzazione, traumi e nevrosi, l’uomo come macchina e la donna come essere sofferente) con estetiche simili: contrasti luminosi violenti e scenografie oblique, messe al servizio dell’allucinazione. Questi modi di vedere terminarono con l’ascesa del nazismo, con la condanna di gran parte delle creazioni espressioniste come arte degenerata e con l’affermazione della Nuova Oggettività, ma in seguito la sua traccia si fece sentire negli informalisti e negli espressionisti astratti e, nel campo delle immagini, in registi come Lynch, Burton o Guillermo del Toro.
Tre assi guidano la struttura tematica e formale di questa mostra (Rottura/Rilascio, Forma/Deformazione e Sonno/Trauma). La prima sezione ci conduce nel contesto in cui, dopo la sconfitta tedesca nella Grande Guerra, si chiude la monarchia prussiana e nasce la Repubblica di Weimar, con promesse importanti (suffragio universale, libertà di stampa, pluralismo politico, riconoscimento dei diritti sociali e del lavoro) e una fine crudele.
La Berlino di quegli anni divenne un centro cosmopolita di fervore culturale, ma anche il palcoscenico di una chiara polarizzazione. In tempi di migrazioni di massa verso le metropoli, gli espressionisti celebrano un’idea di campagna idealizzata (Paula Modersohn-Becker, Arthur Segal, Emil Nolde) di fronte all’affollamento urbano (Otto Dix) e i cineasti accentuano la frenesia dei grandi centri e la corruzione morale che forse hanno contribuito a generare (Dr. Mabuse: Il grande giocatore d’azzardo, dalla sera all’alba, metropoli). Non esiste in queste opere un’estetizzazione della strada: prevalgono spirali e costruzioni contorte.
Le visioni di diseredati e lavoratori impegnati nei mestieri più duri, dipinte da Käthe Kollwitz, Conrad Felixmüller, Erich Drechsler e Magnus Zeller, dialogano con quei film in cui tali dipendenti subiscono umiliazioni e, talvolta, vengono quasi sotterrati vivi.
Altri sguardi si rivolgono al circo e alle fiere itineranti come spazi di controcultura e simboli della fragilità umana e di nuove forme di precarietà; esse rappresentano anche una resistenza alle convenzioni delle città dove si stabilirono. Lo studio del dottor Caligari ci colloca in una fiera e anche le incisioni ci conducono in quell’ambiente. Pierrot e Maschera (1920) di Max Beckmann e giovane pagliaccio (1920) di Erich Heckel.
Un altro interesse per l’esotico avrebbe portato artisti e registi verso l’Oriente, come sfondo “naturale” per danze e gesti particolarmente esagerati: lo vediamo in film come Le avventure del principe Achmed (1926) o Sumurun, una notte in Arabia (1920).


La seconda sezione della mostra è Forma/Deformazione che mette in evidenza come nelle opere d’arte e nel cinema espressionisti volti, edifici, città e contorni di ogni tipo vengano deformati per riflettere crisi interne. Nel caso delle città, questa deformazione serve anche a indicarne il potere divorante sui loro abitanti.
Le architetture diventano geometri opprimenti e le figure umane perdono carattere, diventando macchie. In Plaza de Castilla vedremo visioni urbane distorte di Walter Dexel, Erich Drechsler e Christian Rohlfs in relazione al ghetto ebraico distrutto di Il Golem di Paul Wegener e Carl Boese.
Queste opere si intrecciano – va ricordato – con l’emergere della psicoanalisi, che pone sogno, inconscio e follia al centro dei propri studi, in un contesto sanzionato dalla guerra; comprenderemo così che le tecniche del cinema espressionista sono vicine ai meccanismi del sogno e che gli attori incarnano, contemporaneamente, corpi e simboli.

Quando si parla di deformazione fisica nel cinema, è fondamentale far riferimento a Nosferatu, una sinfonia dell’orrore (1922): Max Schreck, nei panni del conte Orlok, resta probabilmente la figura più significativa del cinema sui vampiri, l’incubo fatto carne: un corpo senza anima. Anche all’interno de Lo studio del dottor Caligari e di Dr. Mabuse: il grande giocatore d’azzardo la deformazione è soprattutto psicologica, e non solo individuale, ma sintomo di mali comuni.


L’uomo-macchina nasce anche come risultato del trionfo della tecnologia sulla vita umana naturale; la scultura di Rudolf Belling allude a questo automatismo vivente. Forme organiche (Uomo che cammina) dal 1921, e ovviamente Metropoli (1927) di Fritz Lang, con la sua Maria robot, a metà tra l’organico e il meccanico. Queste creazioni riflettevano la paura della disumanizzazione.


Infine, Sonno/Trauma ripercorre quella dimensione onirica dell’espressionismo tedesco e del suo cinema di fronte all’impossibilità di trovare sostegno in certezze solide nel periodo tra le due guerre e nella convinzione, sottolineata dalla psicoanalisi, che la vita psichica non si esaurisca nel razionale.
Sembra legarsi alle teorie di Freud. Misteri di un’anima (1926), di Georg Wilhelm Pabst, basato sulla paura irrazionale dei coltelli di uno dei suoi personaggi, ma in misura maggiore o minore decine di film dell’epoca associano complessità psichica e complessità ottica.
Il mostro, fisico o psicologico (solitamente fuso), diventa l’asse della rappresentazione delle paure collettive e delle connessioni dell’espressionismo con la morte e con il conflitto tra bene e male. E la mostra esplora anche l’immagine della donna in queste opere, distinguendo tre modelli: fragile (innocente e instabile), fatale (emancipata, desiderante e sola) e madonne (caregiver e malate). Rappresentano sia un rifugio che una minaccia, come la stessa Repubblica di Weimar.

“Espressionismo. Un’arte del cinema”
FONDAZIONE DEL CANALE
C/ Mateo Inurria, 2
Madrid
Dall’8 ottobre 2025 al 4 gennaio 2026
