I padiglioni, di provenienza provinciale, nazionale e internazionale, erano 127; oggi ne rimane circa la metà. Tra il 1950 e il 1975, nella Casa de Campo di Madrid, si svolse una dozzina di edizioni delle cosiddette Fiere Campestri, manifestazioni nate dalle gare di bestiame e con l’obiettivo di sostenere la ripresa dell’agricoltura e dell’allevamento nel dopoguerra, di portare la campagna in città e di diffonderne i prodotti e il folklore tra coloro che iniziavano a conoscere solo le abitudini del mondo urbano.
L’evento si svolgeva in primavera, sarà familiare a chi l’ha visto NODO e si trova all’origine dell’attuale assetto della Casa de Campo, sulle rive del Manzanares; la corrispondente fermata della metropolitana e le infrastrutture circostanti non facevano parte di quel progetto, ma furono realizzate in parallelo.
José de Coca ha dedicato la sua tesi di dottorato a queste architetture e quel lavoro è stato il punto di partenza (con De Coca come curatore) della mostra che il Museo ICO ha presentato oggi: “Las Ferias del Campo. Paesaggi e architetture moderne nella Casa de Campo”. Oltre a esaminare gli approcci architettonici del complesso, la mostra analizza i padiglioni più significativi per la loro modernità, realizzati da figure di spicco dell’epoca, spesso tenendo conto delle differenze regionali, e si conclude fornendo una panoramica sui restauri cui sono stati sottoposti alcuni degli edifici conservati e sui gradi di protezione e sugli usi attualmente applicati ad essi.
Un paio di anni prima della celebrazione della prima Fiera Campestre, nel 1948, Diego Aparicio López, delegato dell’Opera del Sindacato di Colonizzazione, intuì le possibilità offerte dall’allora Fiera del Bestiame e iniziarono gli incontri con gli architetti Francisco de Asís Cabrero e Jaime Ruiz. I suoi primi schizzi risentivano delle preesistenze, dell’urgenza, della voglia di risparmiare… ma anche del rispetto del paesaggio circostante e degli scorci della città.
Come ingresso fu progettata una porta con arco in cemento e pareti curve in mattoni; a sinistra si trovava il padiglione del Ministero dell’Agricoltura, guidato da Carlos Arniches, e a destra il padiglione generale, anch’esso con una sporgenza in cemento.
Dopo aver percorso un viale, i visitatori accedevano a una piazza circolare con archi all’avanguardia che ospitavano murales ispirati a Matisse e Arp. L’impianto del nuovo si sovrapponeva a quello vecchio – opera di Juan Moya e Idígoras, di radice regionalista – assumendo la forma di una croce, come nei fori romani, e alle estremità del complesso si trovavano gli elementi considerati simbolici: piazza a est e torre a ovest, come indicato nei piani assemblati di Cabrero.
I progetti suoi e di Ruiz saranno caratterizzati dall’uso del mattone a vista, dal bianco come tono dominante e da sottili riferimenti alla pittura metafisica di De Chirico, che Cabrero conobbe in Italia.
La zona più ambiziosa è quella, come già detto, della piazza circolare, decorata con murales attribuiti ad Antonio Lago, Carlos Pascual de Lara e Antonio Rodríguez Valdivieso. I loro originali non sono conservati, ma dalle riproduzioni sappiamo che sostenevano l’astrazione del dopoguerra. Anche il padiglione dei macchinari si distingueva per le volte tramezzate e per l’assenza di ferro; i disegni di Alejandro de la Sota guidano la mostra lungo quel percorso: queste aree non sono preservate.
La torre del ristorante, a ovest, offriva viste sia sulle montagne sia su Madrid ed era molto apprezzata: rispondeva allo schema di una classica torre romana, con l’innovativa aggiunta della mensola in cemento che la soprasta. Ai lati Cabrero introdusse murature in granito con finestre. E va ricordato anche l’anfiteatro, un cono aperto sul paesaggio che richiamava modelli greci e capace di ospitare circa quattrocento persone.

Una delle soluzioni costruttive scelte per contenere l’uso di costosi acciai e calcestruzzi era rappresentata dalle volte poco pronunciate sui muri di mattoni e sugli contrafforti. Denominate “alla catalana” o ripartite, come già accennato, erano impiegate nel nostro Paese fin dal XIV secolo per ragioni di economia e praticità, e il loro profilo più adatto era l’arco a piccola freccia.
La Field Fair fu, in ogni caso, un laboratorio di architettura moderna in quel quarto di secolo in cui sopravvisse: Ruiz e Cabrero esplorarono al massimo le possibilità delle volte in mattone e dei innovativi cantilever in cemento – una delle rare eccezioni nell’uso di quel materiale – e si orientarono verso la massima flessibilità degli spazi e la centralità della luce.
Visto il successo di questa iniziativa, l’operazione fu progressivamente ampliata. Possiamo citare, nel 1956, l’inserimento di una sala riunioni e di un Cubo o Dado cavo, utilizzato come sala di ricevimento; o poco prima, nel 1953, l’ampliamento del padiglione dell’Istituto Nazionale dell’Industria, opera di Esquer e Bellosillo, con una lastra di cemento a conci sospesa a cavi d’acciaio.
Cabrero e Pérez Enciso firmano il padiglione dell’Obra Sindical del Hogar, che richiama Mies van der Rohe, le capriate metalliche costruttiviste e i sistemi di condizionamento naturale tipici dell’architettura ispano-musulmana.
Non deve mancare il plastico in scala 1/1000 dei 115 padiglioni e delle altre costruzioni, ricollocati nella loro topografia originaria, e ricostituiti dopo le ricerche di De Coca, né la pianta generale con la rappresentazione diacronica degli impianti. Inoltre, il Padiglione spagnolo per l’Esposizione Universale di Bruxelles del 1958, trasferito a Madrid l’anno successivo e opera di Corrales y Molezún, è stato riprodotto in un modello di grandi dimensioni: era un esempio di chiarezza organizzativa e comunione di interni ed esterni.

Nel 1965 il Padiglione di Cristallo, progettato da Cabrero e Ruiz insieme a Luis Labiano, trasformò la facciata del locale. Incorpora molteplici allusioni all’architettura del passato, dalle fondamenta alle stanze ipostile e alle cisterne, e condividerà l’ispirazione con i padiglioni successivi di diverse province.
Uno dei più visitati è stato quello delle Canarie, realizzato da Secundino Zuazo, esponente della cosiddetta generazione del ’25 e maestro di Cabrero, Fisac e De la Sota. Si basava sia sulla casa romana sia sull’architettura popolare ed era a forma di U, con una torre panoramica e pergolati a gradoni.
Evidenti radici popolari erano offerte anche dagli edifici che non esistono più a Ciudad Real, Pontevedra e Jaén. Insieme a questa messa in discussione del tipico stile, la durabilità delle costruzioni è stata oggetto di dibattito: Luis Moya preferiva che i padiglioni fossero effimeri; Cabrero e Ruiz hanno optato per la durabilità, per ragioni economiche; e Alejandro de la Sota, in ogni caso, difendeva la novità dalla ripetizione di modelli e dall’evocazione regionale.
I padiglioni e gli allestimenti paesaggistici conservati, che testimoniano ancora fusioni tra contemporaneo e popolare, sono stati dichiarati Bene di Interesse Culturale come Sito Storico nel 2010 (quattro anni dopo l’approvazione del Piano Speciale della Fiera), ma la realtà è che i loro usi attuali non rispondono appieno alle loro molteplici potenzialità, forse artistiche e culturali, forse legate alla promozione dell’ambiente rurale o al turismo sostenibile. Le prospettive restano aperte.


“Le fiere di paese. Paesaggi e architetture moderne nella Casa de Campo”
MUSEO DELL’ICO
C/ Zorrilla, 3
Madrid
Dal 14 ottobre 2025 all’11 gennaio 2026